Civiltà Invisibili
Maurizio
Scudiero
Credo che dopo aver visto questa mostra pochi potranno ancora pensare ad Antonello Serra come ad una “promessa” dell’Arte Trentina, proprio perché, di fatto, la sua è una promessa “mantenuta”. Non a caso nel mio recente libro sull’Arte Trentina del Secolo XX l’ho inserito tra quello sparuto gruppo di artisti più o meno giovani che, a mio avviso, meglio rappresentano quello che si sta agitando in Trentino a quindici anni dall’inizio del nuovo secolo.
E
questo perché la sua arte, che aveva preso le mosse dall’area
surrealista e simbolista, e che in seguito, e specie nelle opere
degli ultimi anni, aveva imboccato una via materica (nel senso
dell’uso di varie materie su una base pittorica) è infine, nel
2009, approdata ad una ricerca antropologica, cioè di profondo
recupero di figurazioni e simboli arcaici riferiti al Genius Loci
della sua terra di origine, che è la Sardegna e che lui definisce
come "Infrusiadas".
Dunque
la sua è una pittura (se ancora si può definire così…) “colta”,
perché il suo è un percorso di conoscenza che ci porta dunque a
“conoscere” la storia arcaica della sua terra di origine. E
questo è propriamente il lavoro dell’artista, che, sì, è vero,
di solito è come un’antenna che sente o pre-sente le situazioni
sociologiche in quanto dall’avvento delle avanguardie in poi l’Arte
ha cessato di essere un’estetica-in-atto per divenire un vero e
proprio evento sociologico (in atto), ma, l’artista è ormai anche
un “operatore culturale”: è cioè chi ci fa vedere in chiave
estetizzante quelle che sono tracce significative della nostra
storia. Questo perché nessun futuro, e dunque nessuna spinta verso
il futuro (anche quella delle avanguardie), è possibile senza una
profonda conoscenza del nostro Passato. Il Passato è lo zoccolo
duro, la rampa di lancio, che ci permette di lanciarci verso
l’ignoto… ma con un bagaglio che ci aiuta a capire cosa troveremo
e come affrontarlo.
E
dunque bene ha fatto nel 2011 Antonio Cossu, nel presentare
l’artista, a citare un libro di Sergio Atzeni del 1996 titolato
Passavamo
sulla terra leggeri,
che è una rievocazione romanzata della storia della Sardegna, sin
dall’epoca preistorica, e nel quale si tratta del meccanismo della
memoria e della ricerca delle proprie radici, e dunque dei “segni”
che la storia ci lascia. Segni che “passavamo sulla terra leggeri
come acqua… come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena
della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici
delle sughere e dei mandorli…”.
Ma,
avvertiva Cossu, che sebbene quello del ricercare le proprie radici
possa essere un sentimento controverso, “spesso letto come
atteggiamento dettato da mera e retorica vena di nostalgia”, il
lavoro invece di Antonello Serra porta appunto a sfatare questo
atteggiamento di pensiero. E infatti, come si può verificare anche
in questa mostra, le opere di Antonello Serra non sono una citazione
iconografia e retorica, oppure persino formale, della specificità
storica della Sardegna, ma un vero e proprio itinerario concettuale
che proprio nella serialità, cioè nella ripetuta citazione di segni
pregni di “contenuto”, percorre così la via della Modernità. E
parlo di Modernità e non di Contemporaneità, perché la prima è il
luogo del “divenire” dell’Arte, il luogo dove la ricerca è
sempre in moto verso il Futuro, dove non ci si ferma mai ad
auto-contemplarsi, ma semmai ad auto-criticarsi. La Contemporaneità,
invece, definisce il singolo segmento della Modernità, e nel tempo
stesso che è così “etichettata” è già… superata… parte
del Passato. Non si può essere “contemporanei” se prima non si è
“moderni”.
Dice
Serra: “Ho voluto usare materiali poveri, ma molto espressivi,
usando, come supporto principale, la juta grezza e i sacchi adoperati
dai contadini, terre appositamente raccolte in Sardegna nelle zone
nuragiche, argille, sabbie, pigmenti colorati, legni e pigmenti,
ecc.”.
Tutto
questo per dare corpo a quella visione delle cosiddette “civiltà
invisibili”, quelle che non si vedono più, ma che si possono
“respirare” quando persone sensibili si avvicinano al cuore di
terre antiche, come, in questo caso, la Sardegna. E Serra prende
ispirazione dalla figura astratta del “dio Toro”, rappresentata
dalle corna bovine, che spesso sono scolpite sulle pareti rocciose
delle Domus
de Janas,
che sono delle strutture sepolcrali preistoriche costituite da tombe
scavate nella roccia, tipiche della Sardegna pre-nuragica. In
italiano il termine Domus
de Janas
è stato tradotto in Case
delle Fate,
il ché aggiunge una declinazione magico-onirica al termine, come se
stessimo parlando dei tempi di Re Artù. Quindi, le corna del toro
sono qui il leit-motiv che Serra rappresenta sulle sue tele quasi in
modo ossessivo, arricchendole di segni, tracce, graffiti e scritture
nuragiche in modo da spiazzare lo spettatore dal tentare
interpretazioni “altre”, e usando sempre una gamma di colori
fedeli a quelli che nella sua memoria rievocano l’immagine della
Sardegna. Il blu intenso del cielo ma anche del mare. I gialli-ocra
dei campi bruciati, e così via.
Quello
che uno sguardo attento può subito cogliere sfogliando le immagini
di queste opere è la freschezza del segno, la perfetta amalgama dei
simboli iconici e la potenza del dato cromatico ed un certo qual
senso di dinamismo, come se queste opere fossero in continua
mutazione. E tutto ciò le definisce come di “assoluta Modernità”,
proprio a fronte di un “portato” culturale notevole perché
quella che ci scorre davanti è una vera e propria “lezione di
storia” vista non solo con l’occhio dell’artista ma anche con
quello dello storico, ed infine, ma non ultimo, con quello del
“pathos”. Ed è, quest’ultimo, un termine forse desueto, perché
parlare di “sentimenti” nell’ambito dell’Arte Contemporanea è
quasi un’eresia… è come parlare di sentimenti alla Borsa di
Milano… impensabile.
Però
credo sia proprio questa la lezione che viene dalla “periferia”
dell’Arte. Vale a dire che la Storia farà giustizia di tanti
“tromboni” spinti solo da filiere di mercato ma che sotto sotto
non portano nulla, che non hanno contenuti… se non nei loro conti
correnti.
La
“periferia” dell’Arte, invece è sempre più spesso il luogo
dove il “contenuto” ed il “contenitore” si accordano
perfettamente proprio grazie a questi portati, a questi plus-valori
che ne sono, in fin della fiera, gli elementi qualificanti. La
“periferia” dell’Arte è il luogo dove trovi ancora artisti
veri, non corrotti dal mercato e semmai ancora legati ad un’idea in
via di estinzione, e cioè che fare Arte è ancora una delle poche
cose per cui vale la pena di vivere.
Credo
che Antonello Serra stia percorrendo questa strada con assoluta,
intima, convinzione… ed è per quello che ci piace così tanto.